Lo scrittore in soffitta

"Giovannino" disse "tu pensi forse in carattere
bodoniano tondo come scrive la tua Olivetti?"
 
G. Guareschi, Lo Zibaldino, 1948

Da piccola avevo un'idea romantica dello scrivere.
Nella mia puerile visione, lo scrittore era una sorta di Rimbaud in soffitta,
foglio davanti e penna mangiucchiata in bocca, isolato nel suo mondo. L'unica cosa di cui dovesse mai preoccuparsi era:
scrivere.
Scrivere al meglio, punto e basta.
 
Je me suis dit: laisse,
Et qu'on ne te voie:
Et sans la promesse
De plus hautes joies.
Que rien ne t'arrête
Auguste retraite.
 
A. Rimbaud, Chanson de la plus haute tour,
Maggio 1872

Mi figuravo quella soffitta scura e polverosa, disseminata di libri e fogli volanti, appunti buttati giù di fretta, correzioni e macchie di caffè sulle pagine; una finestrella per guardare fuori, là dove si agitava il mondo reale; mi figuravo tormenti ed estasi totalmente intimistici e personali; chiunque avesse voluto venire a curiosare, poteva al limite spiare dal buco della serratura, qualora non fosse stato oscurato con un rotolino di carta.
Un universo chiuso di immagini e parole. Un universo totalmente personale.
C'era un piccolo problema, però.
Questa mia romantica visione privava lo scrittore del suo bene più prezioso: i lettori.
Parliamoci chiaro: è un po' difficile che, da quell'immaginaria soffitta, i testi decidano di trasmigrare, mossi da volontà propria, e vadano a rendersi interessanti per qualcuno.
Va bene, si scrive perché magari non si ha voce, perché il mondo là fuori fa troppo rumore, perché la potenza non coincide con l'atto.
Ma, primariamente, si scrive perché si ha qualcosa da dire.
Agli altri.
Lo scrittore, quindi, il piccolo Rimbaud interiore che fa a pugni col Fanciullino, dovrebbe decidersi a mettere il naso fuori di casa.
La soffitta è una gabbia dorata, finisci per trovarla addirittura comoda e accogliente (anche se puzza di muffa e di carte troppo datate, anche se il caffè ha ingiallito i fogli, anche se l'inchiostro fa cilecca). Ti convinci che i gatti sul tetto della casa accanto, che di notte miagolano in amore, siano l'unica sinfonia capace di guidarti. Che i batuffoli di polvere sul pavimento siano di compagnia e che, in essi, si annidino chissà quali ispirazioni.
Esci. Mischiati alla gente. Prenditi le tue porte in faccia. Impara ad annusare l'aria e a capire da che parte soffia il vento.
Esci. Baratta te stesso con i pensieri degli altri.
Le parole sono belle, su carta, ma finchè resteranno lì saranno solo un'altra lista della spesa.
Quando coraggio ci vuole per abbandonare la soffitta? Quanto coraggio ci vuole per andare per il mondo con la propria valigia di sogni di carta?
Tanto.
Si ha sempre la paura di non essere all'altezza, si è frenati dall'idea che gli altri siano migliori di noi.
 
"I racconti di Gente di Dublino sono indiscutibilmente ben fatti,
ma molti altri avrebbero potuto farli altrettanto bene"
 
da una lettera di James Joyces al fratello Stanislaus
 
 
Umiltà e paura si fondono insieme.
Guardi la strada che hai davanti a te e scuoti la testa. Eppure, vai avanti. Stai già camminando. A passi piccoli, magari. A passi incerti (la valigia che ti porti dietro pesa sempre di più). Ma vai avanti.
Tornerai nella soffitta. Ogni volta che vorrai: è tua, è lì, nessuno te la toccherà mai, nessuno ti sfratterà mai, nessuno te la porterà mai via.
Ma vai per il mondo a respirare dell'aria diversa.
Non può che fare bene...







 

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